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Dialogo di W.Guadagnini

Un dialogo

Walter Guadagnini, Sergio Sarri

  • W.G.: Le tue biografie indicano che sei nato a Torino e che hai operato constantemente tra il capoluogo piemontese e Milano: però questo catalogo si apre con una fotografia scattata a Bologna nelI'immediato secondo dopoguerra e hai più volte sostenuto che tieni particolarmente a questa esposizione alla Galleria Arle e Arle: da cosa deriva questo attaccamento a Bologna?
  • S.S.: Per me Bologna rappresenta non solo l'infanzia. la città dove ho vissuto da bambino fra il 1938 c il 1948. ma anche e forse soprattutto il primo incontro con quel mondo delle immagini che avrebbe segnato tutta la mia esistenza Non è una questione nostalgica, è davvero la volontà di recuperare le radici dalle quali penso sia nata la mia determinazione a fare il pittore e, in ogni caso, la mia passione per le immagini, siano esse dipinte, fotografate, disegnate o filmate. In effetti a Bologna ho vissuto pochi anni, e non ho particolari ricordi di carattere affettivo, non ricordo i compagni di giochi o di scuola, ne significativi eventi familiari: ricordo pero benissimo i cartelloni che annunciavano i film all' "Arena del Sole", che oggi è un teatro ma che a quei tempi era soprattutto un cinema. Ricordo i giganteschi manifesti che rappresentavano le scene cruciali dei film in programmazione, il mio stupore di fronte ad essi, e la scoperta del fatto che attraverso i segni e i colori si poteva creare un mondo. Un mondo parallelo a quello reale, un mondo di fantasia che lo vivevo però con maggiore intensità di quanto non vivessi la mia quotidianità.
  • W.G.: Una scelta precoce, dunque, quella della pittura...
  • S.S.: Più che di una scelta parlerei di una naturale inclinazione, peraltro in quel momento non filtrata da alcun bagaglio culturale. Era proprio la sorpresa e la meraviglia di vedere mondi nuovi e, al tempo stesso, di vedere come qualcuno sapesse renderli visibili attraverso il disegno e i colori. Per spiegare meglio questo concetto devo anche aggiungere che gli altri luoghi del mio desiderio di evasione dalla realtà erano i circhi e le fiere, gli spettacoli popolari che, a quei tempi, erano davvero gli unici luoghi di svago: anche le fiere e il circo erano pubblicizzati attraverso grandi cartelloni, o attraverso le insegne che illustravano le maggiori attrazioni di quegli spettacoli. Ecco, se devo pensare ai miei ricordi di infanzia, penso a quel mondo di immagini irreali ma straordinariamente affascinanti; i miei ricordi sono i mondi che ha creato la mia fantasia in quei giorni, per questo Bologna è per me così importante, per questo sono così legato a una città nella quale ho vissuto per un tempo relativamente breve.
  • W.G.: abbastanza difficile riuscire a immaginare oggi un mondo come quello che descrivi, anche se non è poi così lontano nel tempo; nel frattempo sono nate la televisione, internet, la nostra vita è satura di immagini che non occorre nemmeno andare a cercare, le incontri anche senza volerlo.
  • S.S.: Sì, ho seguito naturalmente tutta questa evoluzione e non voglio apparire assolutamente come nostalgico quando ricordo un tempo diverso, l'immagine mi affascina allora come adesso, continuo ad amare il cinema e a seguirlo con regolarità. Con internet ho un rapporto diverso ma non conflittuale, tanto che già dagli anni Ottanta mi sono confrontato - pittoricamente però - con la "tecnologia dolce" del computer. Ma, a proposito dell' andare a cercare le immagini, questo è vero, accanto al cinema e alle fiere, sono stati importantissimi i primi fumetti che ho visto, Tarzan, I Quattro Moschettieri; il fumetto faceva parte di quel mondo parallelo nel quale mi trovavo assolutamente a mio agio e che volevo a tutti i costi che diventasse parte della mia esistenza quotidiana, volevo far parte di coloro i quali inventavano e illustravano quelle storie. E per tutta la vita credo di non aver fatto altro che cercare di dimostrare, soprattutto a me stesso, che ero capace di fare quelle cose, cercando dl farle sempre meglio.
  • W.G.: Per seguire questa tua passione cosa hai fatto? Nelle tue biografie non risultano i tradizionali studi accademici.
  • S.S.: No, nessuno studio accademico, se non alcuni corsi di disegno seguiti nel Nord dell'Europa alla fine degli anni Cinquanta. Ma il biennio 1958-60 e stato per me realmente decisivo: me ne sono andato dalla casa paterna proprio per liberarmi dai vincoli e dal condizionamenti dell'Italia di allora: il mito degli anni Cinquanta e Sessanta e stato creato a posteriori, quella era una società ancora estremamente chiusa, la rivoluzione del costumi era ancora di là da venire. Mi piace sempre sostenere che ho fatto il mio "sessantotto" con dieci anni d'anticipo, e da solo... Voglio dire, il contesto non era certo favorevole, ma io, anche grazie al sostegno che ho avuto dalla mia fidanzata, che poi è diventata mia moglie, ho deciso di rischiare, volevo cercare di capire se davvero sarei riuscito a "fare l'artista", a vivere di arte. Per fare questo, ho girato per due anni l'Europa in autostop, Germania, Spagna, Paesi Bassi, Francia, Svizzera, Austria, un vero e proprio Grand Tour al contrario, e senza una lira.
  • W.G.: Durante questi viaggi immagino avrai avuto modo di venire a contatto anche con il mondo dell'arte: a fronte della ricchezza del panorama culturale europeo, si sarà rinforzata in te quella determinazione di cui parlavi prima.
  • S.S.: Se con questo intendi una conoscenza e un confronto con il mondo dell'arte contemporanea di quel periodo, la risposta è no. Non avevo le basi culturali, e quei viaggi mi sono serviti, artisticamente, proprio per crearmele, visitando i più grandi musei del Vecchio Continente. Ma guardavo e cercavo Rembrandt, Grunewald, Van Gogh, al massimo arrivavo a Picasso e alle avanguardie storiche, non certo all'attualità. Ma la lezione dei grandi maestri è stata per me importantissima, fondamentale, perché da un lato mi ha confermato nella mia convinzione che con la pittura si potesse creare qualsiasi realtà, qualsiasi mondo, reale o di fantasia, e dall'altro mi ha insegnato che per ottenere questi risultati la tecnica, la coscienza nell'utilizzo degli strumenti della pittura, era un elemento imprescindibile. Ancora oggi, ogni volta che inizio un nuovo quadro, penso a questo, a dipingerlo meglio di quello precedente, perché se hai visto e studiato certe opere, certi maestri, la qualità della pittura non è un concetto astratto.
  • W.G.: Siamo cosi arrivati agli anni Sessanta, quando decidi di tornare in Italia...
  • S.S.: In realtà non l'ho deciso, sono dovuto rientrare con il foglio di via, per rispondere alla chiamata militare. Ci si può immaginare la mia reazione a quell' ambiente dopo due anni di liberta assoluta, anche se non certo vissuta nella ricchezza. In breve, sono riuscito a farmi considerare inidoneo al servizio militare, nel 1961 mi sono sposato e ho iniziato a lavorare negli studi di pubblicità: era il tipo di lavoro tutto sommato più vicino a quello che davvero volevo fare, e mi permetteva di vivere e di dedicarmi anche alla pittura. Dal punto di vista pittorico ero comunque ancora alla mia preistoria, frequentando l'ambiente torinese facevo una figurazione debitrice di Casorati, ma ancora del tutto ingenua e immatura.
  • W.G.: Fino al 1964, l'anno della fatidica Biennale del Pop Art, lo sbarco degli americani in laguna, il Premio a Rauschenberg: immagino che questo sia stato per te un momento decisivo.
  • S.S.: Non quanto si possa immaginare, in effetti devo ammettere che la vera "rivelazione" del linguaggio Pop è avvenuta l'anno successivo, in occasione di un viaggio a New York che mi ha aperto gli occhi, soprattutto mi ha dato la misura di quanto la cultura italiana fosse ancora attardata rispetto a quanto stava accadendo nel resto del mondo. Però anche la mia lettura della Pop Art è stata particolare, devo dire che mi sono trovato più in sintonia con autori considerati marginali in quell'ambito, figure non di secondo piano ma sicuramente meno note di Warhol, Rauschenberg, Lichtenstein. Ricordo bene che la mostra che più mi impressionò in quel viaggio a New York fu una personale di Richard Lindner, una sorta di precursore della Pop, un esponente di una nuova possibilità di figurazione i cui riferimenti iconografici e stilistici non erano interamente debitori del messaggio pubblicitario. Allo stesso modo mi aveva incuriosito, in quegli anni, la figura di un pittore inglese, Spencer, oggi pressoché dimenticato, anch'egli concentrato sulle possibilità di reinventare la figura umana all'interno del nuovo modello sociale e di vita che si andava affermando in Occidente, anche se con accenti più marcatamente espressivi ed esistenziali. E’ guardando a queste figure, e alla società, che nasce il mio interesse per il rapporto tra l'uomo e la macchina, ed è guardando le diverse declinazioni della Pop Art, in particolare di quella inglese, che ho trovato il mio linguaggio pittorico.
  • W.G.: Eppure a Torino, dove tu vivevi, gli artisti Pop americani hanno trovato alcune gallerie di riferimento, almeno per quanto riguarda l'Italia...
  • S.S.: Certo, non voglio dire di non aver visto nulla a Torino, ricordo ancora adesso il Whaam di Roy Lichtenstein nella piccola vetrina sulla strada della Galleria I1 Punto, e voi critici potrete sicuramente sottolineare quale possa essere stata l'influenza di un autore così su un giovane appassionato di fumetti... E va ricordato come Remo Pastori, che aveva rilevato la galleria Il Punto da Gian Enzo Sperone, sia stato per noi giovani una importante figura di riferimento in quegli anni iniziali, certo non facili: ricordo che me lo presentò Marco Gastini, mi organizzò la prima personale nel 1968, aveva il grande pregio di infondere coraggio, di farti capire che "si poteva fare", ed era proprio quello di cui io avevo bisogno.
  • W.G.: Nel 1967 la fase propulsiva della prima stagione della Pop Art è praticamente al termine, è infatti il tuo linguaggio è quello dei tuoi compagni di viaggio - da Spadari a De Filippi, da Mariani a Baratella - si può definire correttamente come post-Pop, vale a dire come un linguaggio che origina da alcune premesse di quella stagione per andare verso soluzioni diverse, nate da una diversa sensibilità
  • S.S.: Prima dicevo che ho fatto il '68 con dieci anni d'anticipo, ma in effetti il '68 è stato un momento importante per tutti, anche in ambito artistico. Eravamo tutti coinvolti, e il linguaggio così ottimista della Pop non poteva più essere sufficiente, l'impegno sociale, se non direttamente politico, spingeva verso soluzioni d'immagine più critiche. Infatti nel 1968, in occasione della collettiva "Alternative Attuali 3" a L'Aquila, il nostro lavoro venne posto da Enrico Crispolti sotto la definizione di "figurazione critica", una definizione nella quale mi piace ancora riconoscermi. Sono stati anche anni di grande sperimentazione, si tentavano strade diverse, mi sono anche misurato con il linguaggio cinematografico vero e proprio, realizzando alcuni film sperimentali, basati su quell' idea di collage visivo che andavo perseguendo almeno dai 1966. Quanto affermi a proposito del mio rapporto con la Pop è vero, per me è stata una sorta di rivelazione, ma è stato subito chiaro che non potevo adagiarmi semplicemente su uno stile, il quale peraltro era già stato portato ai massimi livelli negli anni precedenti. E’ stata come una conferma di ciò che si poteva - e forse si doveva - fare con le immagini, e insieme come una palestra, ma andava superata: per me il superamento andava nella direzione di una maggiore attenzione al rapporto, a volte conflittuale e a volte positivo, tra uomo e macchina, tra tecnologia e progresso, termini che non sempre vanno d'accordo come sembrerebbe a prima vista. Ricordo bene quanta importanza hanno avuto per me il Rapporto del Circolo di Roma, o le ricerche del M.I.T (Massachusset Institute of Technology) agli inizi degli anni Settanta sui "limiti dello sviluppo": i temi dello sviluppo sostenibile dei quali si parla tanto oggi sono nati già in quel momento, e hanno influenzato profondamente la mia ricerca e il mio atteggiamento nei confronti del mondo, credo si veda anche attraverso le mie opere. Fra l'altro, per tornare alla cronologia, è proprio nel 1970 che abbandono tutti i lavori che facevo per dedicarmi finalmente solo alla pittura, è stato un momento di grande soddisfazione per me.
  • W.G.: Vuoi spiegare meglio il concetto di collage visivo al quale hai accennato?
  • S.S.: Si, l'idea è che tutto quello che noi percepiamo oggi, nella società dell'immagine e della comunicazione di massa, è in sostanza frutto di un collage di immagini che ci provengono dalle fonti più diverse. Io cerco di ricreare questa sensazione all'interno dei miei quadri, che sono il risultato di una ricerca sia visiva che intellettuale. Nel mio studio ci sono cassetti ricolmi di immagini tratte dai giornali, dalle riviste, le immagini più disparate, non importa quale sia la loro provenienza, quale sia il loro contesto di origine: quando trovo un'immagine che mi attrae - e i motivi di questa attrazione possono essere diversissimi - la ritaglio e la conservo. Può rimanere nel cassetto anche per anni, fino a quando non arriva un'altra immagine che mi sembra possa funzionare assieme a lei - anche in questo caso per i motivi più diversi. Procedo così realizzando dei piccoli collages che rimangono come miei studi personali, non li ho mai esposti, non li considero come opere, ma come materiale di lavoro. Da questi nasce infine il quadro, o meglio comincia il quadro, che è una traduzione con altri mezzi dell'immagine nata dal collage: non seguo il metodo di Rosenquist, che dal collage passa al disegno, elaborando le immagini, e poi alla tela; passo direttamente alla traduzione in acrilico, senza passaggi intermedi, perché è la natura stessa della pittura, del quadro, a modificare il significato delle immagini originarie. Credo molto nell'autonomia della pittura, nella sua capacità di avere un ruolo peculiare anche all'interno del mondo contemporaneo...
  • W.G.: ...anche perché ha una temporalità diversa rispetto ad altri mezzi di comunicazione...
  • S.S.: ..ma anche perché la pittura mantiene un suo mistero, i miei quadri non si possono mai spiegare interamente, non c'è una spiegazione univoca, si riconoscono i singoli particolari di cui sono composti, le fonti iconografiche, ma l'immagine finale è qualcosa di enigmatico, e tale voglio che rimanga. E’ evidente che proprio dai singoli frammenti si riesce a capire quali siano i miei interessi, sia in termini iconografici che in termini di tematiche ma per me è importante che non venga svelato il segreto del loro accostamento.
  • W.G.: Nel corso degli anni Settanta c'è stato forse un momento nel tuo lavoro in cui l'attenzione nei confronti dei temi sociali, della violenza, del rapporto conflittuale tra uomo e macchina, è stata più evidente, più leggibile: le maschere, gli oggetti che sembrano quasi strumenti di tortura, l'utilizzo di determinate prospettive rendeva i quadri più immediatamente leggibili, quasi in senso narrativo.
  • S.S.: E’ un'interpretazione legittima, in fondo il mio interesse nei confronti della tecnologia, delle macchine, è senza dubbio un modo per rimanere coinvolto nella vita reale anche facendo il pittore ed inventando mondi paralleli; non a caso sono un appassionato di fantascienza, il regista che amo di più è Stanley Kubrick, insieme a David Linch, pensa ad "Arancia meccanica" o a "2001 Odissea nello spazio"... Certamente in quel momento l'attenzione nei confronti della società contemporanea era presente anche nei mio lavoro, come dicevo prima sono gli anni del rapporto del Circolo di Roma, dell'impegno anche politico. Però, al di là di questo, non sono mai stato particolarmente attirato dall'aspetto narrativo della pittura: questo lato del mio carattere, che pure esiste, l'ho sfogato interamente nel fumetto.
  • W.G.: Questo è un capitolo pressoché sconosciuto a chi ti conosce come pittore, anche perche tu ti sei sempre firmato con uno pseudonimo, SeSar.
  • S.S.: Da tutto quello che ho raccontato sino ad ora, credo sia stato quasi fatale per me confrontarmi con il linguaggio dei comics, anche se in realtà i miei fumetti sono nati quasi per gioco, per una sfida con gli amici che del fumetto avevano fatto una professione, e di altissimo livello. Così, alla fine degli anni Ottanta ho iniziato a buttare giù qualche storia, nella quale potevo dare libero corso alla mia vena narrativa, rendere omaggio agli idoli cinematografici della mia adolescenza, e anche divertirmi. La scelta di utilizzare uno pseudonimo è stata dettata dal fatto di non voler confondere la mia vicenda pittorica con quella che considero una parentesi, che mi ha dato grandi soddisfazioni e che certo non rinnego, ma che proprio concettualmente è diversa. Comunque, ho pubblicato sulle maggiori riviste di fumetti italiane, a partire da "Corto Maltese", storie dove potevo unire la mia passione per il cinema, per il disegno, per il collage (in fondo i miei fumetti sono collages di tante storie e di tanti personaggi diversi) in un unico linguaggio. Dopo averli visti al cinema, averli letti negli albi, pensa alla soddisfazione di far incontrare King Kong e James Cagney, di inventare un'altra avventura di Tarzan...
  • W.G.: Insomma, si ritorna al punto di partenza.
  • S.S.: Come sempre. In questi ultimi anni ho viaggiato abbastanza, mi sono quasi diviso tra il piacere della pittura e quello del viaggio, ma vedi che alla fine si torna sempre a quei viaggi della fantasia che sono iniziati nell'ormai lontano 1946, davanti all'ingresso di un cinema bolognese: forse non sto facendo altro che continuare a inseguire quel sogni, ma ti dirò che non mi dispiace affatto.

 

Milano, 13 febbraio 2008